Il Segreto di Albe Steiner
di Gaetano Grasso – insegnante dell’ITSOS “Albe Steiner”
Questo testo è risultato dalla parziale rielaborazione e integrazione di una traccia di intervento tenuto il 14 giugno 1997, in occasione del XXV anniversario e dell’intitolazione ad Albe Steiner dell’ITSOS di via San Dionigi 36 (fino al gennaio 1996 ospitato nell’edificio di via Pace della Società Umanitaria).
Mi è stato chiesto di illustrare, brevemente s’intende, le ragioni della scelta d’intitolare la nostra scuola ad Albe Steiner.
Per mia fortuna, ho pensato, il compito non è troppo difficile anche se rischia di pormi fuori da mie più specifiche competenze: non certo perché le ragioni di questa scelta siano vaghe e generiche quanto basta per poterle esaurire nel giro di qualche frase di circostanza, ma – all’opposto – perché mi appaiono evidenti , e quello che avvertiamo come evidente ci dà l’impressione di essere per ciò stesso facilmente comunicabile, in quanto, per definizione, non ha bisogno di dimostrazione. Bella sciocchezza, lo so bene io, professore di italiano e storia di un istituto superiore di comunicazioni di un paese inflazionato di grandi comunicatori (dopo i poeti, i santi e i navigatori), che non mi stanco di richiamare ai miei studenti il dritto e il rovescio delle parole o di discutere con loro le tesi del cosiddetto “revisionismo storico”!
E’ pur vero inoltre che, come ha scritto Rossana Rossanda, “Albe ci insegnò la semplicità come forma di cultura”, ma appunto quella semplicità che, tutt’altro dal semplicismo, e tutt’altro che in contraddizione con l’attualissimo paradigma della complessità, non è data, ma da conquistare, in una tensione d’appropriazione di metodo e saperi attraverso insistenza di esperienze e progettualità. Semplicità insomma che legittima, non contraddice, la funzione della formazione nella scuola, cui egli – che era stato forzatamente autodidatta nella sua professione – coerentemente dedicò parte significativa del suo impegno, volto a evitare prima di tutto “sprechi, disseminazioni di energie, perdite secche di idee e di modi nella società civile, in un processo di conoscenze cui nessuno può rinunciare” (P.Fossati in A.Steiner, Il mestiere di grafico).
Ma è troppo tardi per rimediare a un raptus di superficialità, perciò devo confessarmi, qui e ora, impreparato, mentre il surriscaldamento atmosferico e umano che ci assedia, celebrando – insieme ai familiari di Albe Steiner e a tanti colleghi e amici – intitolazione e XXV° anniversario di questa scuola, rischia di lasciarmi con la sola lucidità del sudore. Non mi resta che chiedervi di accogliere questi appunti frettolosi come proposta di un discorso che avrebbe dovuto essere fatto, ma che non c’è veramente e neanche so se sarei capace di sviluppare.
Ora, per rompere un momento l’onda emotiva seguita anche alla lettera di commiato di Nuccio Ambrosino con la sua affabulazione a grande effetto catartico, inno al sentimento contro il sentimentalismo, vorrei cominciare da un pezzetto di fiction di colore locale, per l’occasione dell’intitolazione di cui dovrò dire. Noi docenti dell’ITSOS, al pari del restante mondo della scuola da cui qualche volta ci affacciamo con meriti o demeriti, non siamo immuni da trivialità che spesso rinfacciamo al mondo massmediatico di fronte a molte questioni grandi o piccole che ci troviamo ad affrontare. Con l’aggravante di non seguire mai, ma proprio mai, l’aureo principio dell’ubi maior minor cessat (sarà il retaggio della grande stagione di antiautoritarismo che all’alba dei settanta ha ispirato la nascita di questo istituto?). Ma si sa, come diceva quel famoso spirito maligno, che “anche le aquile talvolta volano basso come le galline”.
Ne è esempio la questione del nome della scuola per cui oggi siamo qui. Nel nostro antico e recente passato, precedente l’avvio dell’attuale progetto multimediale, l’esistenza stessa di tre indirizzi tecnico – professionali, diversi seppure uniti dalla dizione “di comunicazioni” (visive, linguistiche, informatiche), ha costituito una sorta di remora alla scelta di un nome per l’ITSOS: perché indicare un nome riferibile in modo preminente a uno dei tre indirizzi avrebbe suscitato sospetti di egemonismo e accanite resistenze da parte degli altri due; mentre proposte intenzionalmente “neutre” non avrebbero suscitato l’interesse di nessuno; e, infine, può darsi che a qualche veggente fra noi il caro acronimo, in quanto tale già un po’ informatico e multimediale, suonasse di per sé gravido di futuro.
Ora, da separati in casa (quando si trattava di un trilocale) siamo passati a un istituto mono – indirizzo, con piano di studi però sempre affollato di molte materie, tanto che perfino alla vigilia di questa tardiva celebrazione, per così dire, riparatrice, siamo riusciti a sollevare qualche polverosa questione di etichetta tra diverse candidature all’intitolazione: quelle di uno “scrittore”, due “fotografi” , due “militanti politici”, un “artista”, un “grafico”, “un italiano”, un “grande attore comico” Š A un certo punto qualcuno fra noi (praticamente ultimo arrivato, come ama definirsi benché primo nella scala gerarchica e lesto ad apprendere, però ancora poco esperto di dinamiche di gruppo indigene un po’ irrancidite da prolungata convivenza) ha rischiato perfino una precoce caduta di consenso e d’autorità credendo di ravvisare la “sintesi” risolutiva in un nome della rosa, quello di Albe Steiner, che riassumerebbe praticamente tutto, di tutti, di più, tranne il “grande attore comico”: o, per lo meno, sotto questo riguardo non si era in possesso di sufficiente documentazione.
Dopo questa premessa sull’antefatto privato, che non ho voluto tacere anche a prova del “pluralismo” effettivamente dispiegato in ogni circostanza dal nostro istituto non di rado tacciato di troppo unanimistica coloritura ideologica, entriamo pur solo per cenni e suggestioni nel merito di qualcuna delle evidenze (sì, eppur son tali) che hanno orientato le ragioni pubbliche della nostra scelta di intitolazione. Propongo di rileggere stralci di una delle “testimonianze” su Albe Steiner che ha già avuto circolazione dentro il nostro dibattito, e che con singolare coincidenza proviene da Italo Calvino, altro nome caldeggiato per l’intitolazione, a favore del quale il Collegio docenti si era espresso con pur ottime ragioni. A questa testimonianza avverto subito che farò quasi esclusivo riferimento, non come gesto di risarcimento, peraltro non richiestomi da nessuno, ma perché si intitola “Il segreto di Albe Steiner”, perché l’intitolazione del nostro istituto rappresenta simbolicamente una tensione a far nostro questo segreto, e perché proprio Calvino, con sottile procedimento retorico di preterizione, stuzzicandoci all’indagine fin dal titolo, in realtà ce lo spiattella da par suo.
Inoltre, mi tengo qui a rispettosa distanza da rilievi specifici sull’opera di Albe Steiner “grafico” piuttosto che “artista” o “fotografo” o “designer” o altro, per miei limiti già ammessi, ma anche perché proprio l’irriducibilità della sua figura (nonostante la profondità di competenze) a una singola qualifica tecnico – professionale, a uno specialismo settoriale, e la sua curiosità di confrontarsi con ogni sviluppo delle tecnologie comunicative, ne è la peculiare caratteristica che ce lo ha segnalato come modello attualissimo a cui riferire il nostro nuovo progetto multimediale; e infine perché mi sembra più appropriato in questa sede manifestare soprattutto la suggestione che riceviamo dai tratti della sua personalità e dalla multiforme attività in cui si sono espressi. Scriveva dunque Calvino nel ’74 a ricordo di Steiner:
“Una delle fondamentali idee estetiche del nostro secolo, che la forma delle cose che ci circondano, degli oggetti della nostra vita quotidiana, delle scritte, di tutto ciò che serve per comunicare, questa forma esprima qualcosa, una mentalità e una intenzione, cioè il senso che si vuol dare alla società nell’era della civiltà industriale, quest’idea aveva cominciato a circolare per l’Europa negli anni della sua giovinezza ed era stata decisiva per lui. Direi che in lui questa idea non aveva mai perso la forza di impatto della prima scoperta e non era mai incappata in contraddizioni e in crisi perché per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati”.
Il nesso fra piacere dell’invenzione formale e senso globale della trasformazione della società è così posto fin dagli anni e dai modi dell’apprendistato e della formazione artistica, professionale e politica di Albe Steiner nel clima di avanguardie storiche degli anni venti – trenta. Il suo sguardo sensibile rivolto al di là dei confini angusti dell’Italia fascista, agli esempi del costruttivismo sovietico e del Bauhaus, orientati appunto a valorizzare il rapporto fra progettazione e istanze sociali e a esplorare la possibilità e le potenzialità creative di uno sviluppo tecnico – industriale capace di sottrarsi alle leggi del capitale, ne farà un protagonista degli sviluppi più innovativi della comunicazione visiva nel nostro paese: pronto ad un tempo agli appuntamenti con le scadenze e i nodi culturali che l’Italia affronterà dalla ricostruzione al decollo industriale fino ai fermenti nuovi degli anni sessanta.
L’introduzione di una moderna cultura della comunicazione visiva in Italia avviene insomma sotto il segno di una consapevolezza già maturata delle sue valenze politico-sociali . Il piacere dell’invenzione formale risulta dall’essere vissuta insieme come trasformazione di cose e di rapporti con le cose e con gli altri, dunque come potenzialità d’intervento efficace sullo stato di cose presente. Al tempo che verrà, delle ferventi discussioni intorno al ruolo degli intellettuali e degli artisti nell’era della civiltà industriale in cui il nostro paese sarà finalmente incluso, dalle discussioni su “letteratura e industria” a quelle fra apocalittici e integrati (secondo le fortunate categorie introdotte da Umberto Eco per chiamarsene fuori), Steiner poteva autorevolmente proseguire, senza incappare in contraddizioni e in crisi, un cammino di impegno professionale e sociale che da tempo in prima persona (mai apocalittico e tanto meno integrato, mi sentirei di sottolineare) aveva già tracciato e praticato.
Estraneo a qualsiasi opportunismo, seppe infatti affiancare alle attività professionali prestate a numerose importanti industrie (Agfa, Pierrel, Olivetti, Pirelli, Coop, la Rinascente ecc.), riviste e case editrici (Einaudi, Feltrinelli, Zanichelli ecc.), la collaborazione con enti e istituzioni culturali (RAI, Piccolo Teatro, Triennale di Milano, Biennale di Venezia ecc.), la promozione di incontri, dibattiti e strutture organizzative per il riconoscimento della grafica e del design sul piano tecnico, professionale e politico-sindacale, la militanza politica e la partecipazione a innumerevoli iniziative editoriali e politico-culturali del movimento operaio, l’azione a favore della conservazione della memoria della deportazione, l’impegno in progetti formativi, innovativi e antielitari, rivolti alle nuove professioni legate agli sviluppi della comunicazione sociale, e dunque finalizzati alla valorizzazione della nuova qualità intellettuale del lavoro sociale, la pratica diretta dell’insegnamento (e qui, solo di sfuggita: felici quei momenti in cui la scuola, da terreno di fuga di cervelli o d’approdo per aspirazioni frustrate, si fa disponibile a interazioni vive e dirette fra esperienze sociali e produttive diverse, capaci di coinvolgere in prima persona grandi professionisti e intellettuali, artisti, poetiŠ).
E’ di questo complessivo orizzonte di senso (e di valori) che si nutre la stupefacente vitalità e la capacità di Albe Steiner di essere presente dappertutto: quanti di noi sono stati formati, più o meno consapevolmente, dalla sua molteplice e sterminata produzione di artista, grafico, designer, insegnante, possono misurare quanta distanza separi simile presenza dall’insulso presenzialismo autopubblicitario e narcisista, direttamente proporzionale alla banalità della produzione, che infesta il panorama mass – mediatico odierno.
Come accade in simili circostanze, Calvino parlando di Steiner ci dice naturalmente anche di sé e di altri a sé vicini, restituendoci il senso (e trasmettendone all’oggi l’acuta nostalgia) della tensione etica che possono comunicarci i protagonisti di una felice stagione di speranza progettuale, come già aveva fatto ad esempio nei confronti di Elio Vittorini, poco dopo la scomparsa, nelle dense pagine dal titolo “Progettazione e letteratura” sul Menabò n.10 del ’67 (non senza aver detto di lui ciò che potrebbe essere ripetuto alla lettera per Albe Steiner, che “Vittorini era tipo d’uomo cui mal s’addice il tono della commemorazione”):
“(Tutta la sua opera) è un libro che non si chiude in se stesso, non si propone come oggetto autonomo, bensì rimanda continuamente al suo esterno, a valori da riconoscere o da costruire fuori delle sue pagine. Diciamo allora che il discorso generale di Vittorini è progetto, o meglio progetto di progetto. E d’una letteratura che è a sua volta progetto(..): la letteratura che, nell’essere specificamente letteratura, è parte e modello e funzione d’un tutto non ancora realizzato ma pure visto come raggiungibile. Questo tutto può essere senz’altro detto una cultura, sia nel senso specifico del termine sia in quello di somma delle pratiche umane. Ma ancora, al di là di questo progetto di cultura, è un modo di stare al mondo che è l’obiettivo finale, un rapporto con gli altri e con le cose. La progettazione cui Vittorini lavora e di cui la letteratura dovrebbe farsi segno e vettore, è progettazione umana. Essa avanza, insieme al momento negativo del rifiuto della situazione presente, l’affermazione di ciò che è valore (Š) e l’assume a termine obbligatorio di confronto, la proietta ed estende”.
Quella volontà di progettazione umana, rivolta a costruire nuovi rapporti con gli altri e con le cose, entro cui stiamo volutamente confondendo le fisionomie di Calvino, Vittorini, Steiner, si riversa naturalmente anche nel profondo interesse mostrato da quest’ultimo alla scuola, come sbocco di una sua vera e propria passione pedagogica. “Progetto, o meglio progetto di progetto”: possiamo – dall’interno della nostra esperienza in questo istituto – riconoscere parole-chiave nostre. “Parte e modello e funzione d’un tutto non ancora realizzato ma pure visto come raggiungibile” , tali sono, o vorrebbero, o dovrebbero essere sia il progetto formativo generale che presiede alla nostra sperimentazione, sia il momento che ci è sempre sembrato più qualificante e caratterizzante la didattica che perseguiamo (e che chiamavamo Area di progetto, ambito di convergenza operativa di conoscenze e abilità trasversali), sia l’agire quotidiano nella relazione coi nostri studenti.
Se da simile idea-forza, da simili connotazioni di progettualità ha origine il nostro istituto nei primi anni settanta, anche grazie all’iniziativa spesa da Albe Steiner a favore della nascita di un istituto superiore statale di comunicazione visiva, tutto questo ci riguarda molto da vicino anche oggi, nell’attuale rinnovamento del progetto di comunicazioni divenute “multimediali”, rivolto ancora una volta a professioni nuovissime che cominciano a configurarsi in relazione con lo straordinario mutamento delle tecnologie comunicative, e con la prospettiva (forse in corso di realizzazione?) di una riforma generale della scuola a fronte di un contesto economico-sociale e politico-istituzionale in radicale trasformazione che evidenzia l’intreccio tra nodi irrisolti e nuove contraddizioni e insidie. Di fronte ai modi nuovi di riproporsi del confronto tra cultura, formazione e mercato, tra scuola e azienda, tra pubblico e privato, se la scuola istituzionalmente (e per sua propria costituzione) non può rappresentare un punto di vista “apocalittico” (nel senso di esprimere cultura critica intesa come pensiero negativo “puro”), può non essere, ed è bene non sia mai, “integrata” (nel senso di svuotata di progettualità formativa autonoma seppure non “separata” e di capacità di affermazione di ciò che è valore, e assoggettata invece a logiche e meccanismi e finalità dal cui controllo è esclusa).
Oggi interrogare il segreto di Albe Steiner per noi significa anche continuare a ricercare con quale atteggiamento muoverci nella trasformazione, che cosa non perdere di vista, a cosa essere aperti con vigile ottimismo. E proprio sul tema decisivo dell’ottimismo vorrei introdurre un ulteriore ordine di considerazioni suggerito da un passaggio della testimonianza di Italo Calvino, il quale tratteggia il ritratto essenziale di Albe Steiner volgendo lo sguardo alla tragedia storica e personale che pure, collocata a mezzo fra gli anni di apprendistato e prima affermazione professionale e quelli della “maturità” del lungo secondo dopoguerra cui già abbiamo fatto cenno, non rappresentò alcuna “cesura” nel percorso fin qui accennato.
Quest’uomo, la cui storia familiare era stata a più riprese segnata dalla tragedia per il ripetuto accanirsi della ferocia fascista, aveva sempre davanti agli occhi la visione di strage che occupa tanta parte della nostra esperienza. Era questo il suo costante punto di riferimento, della sua idea del mondo, della sua tematica espressiva, della sua vita di militante. Era appunto questo fermo fronteggiare la tragedia che gli imponeva di tracciare una netta linea di demarcazione tra il proprio mondo di valori e l’esperienza di un male assoluto. Egli era sempre teso ad allontanare tutto il negativo al di là di quella linea perché al di qua l’ottimismo restasse l’elemento decisivo”.
Pur sentendoci in difetto di celebrazioni gramsciane, ci guarderemo bene dal discettare qui su ottimismi figli della ragione o della volontà: se invece che sulla paternità ci interrogassimo sulla maternità, come genere grammaticale suggerirebbe, non avremmo lo stesso più solida certezza. Quel che resta innegabile è il fatto che tale esperienza di un male assoluto, ombelico putrescente e ancora fecondo di questo secolo ventesimo, ha costituito per più generazioni momento fondante dell’agire etico nelle scelte militanti, nell’impegno sociale come in quello civile e professionale. Per Albe Steiner, che Gillo Dorfles ricorda di aver conosciuto consapevole “quando gli antifascisti in Italia si contavano sulle dita”, la partecipazione alla resistenza armata è passaggio conseguente rispetto a scelte da tempo sedimentate. In una bellissima pagina Franco Fortini, rievocando una sera in Valdossola, scrive di lui:
Quel giovanotto diceva tranquille parole di un imperturbabile misticismo (…) Uscimmo camminando sotto le stelle. La notte era tranquilla. Dal chiuso delle osterie venivano ancora i cori dei partigiani. Parlammo di pittura, di libri. Parlammo del dopo, come se fosse sicuro. Capii tutt’a un tratto che, se anche non ci fossi arrivato, quel che avevo visto bastava per chiudere una esistenza senza bestemmiare. Mentre ascoltavo e parlavo, ricominciai a credere che anche un uomo come me, con tutte le sue fisime e con tutte le sue idee, e con tutta la sua incertezza e la vita informe e l’inettitudine a vedere il reale, ebbene, avesse il diritto di stare in mezzo agli uomini di azione. Non dovevo considerarmi un essere inutile. Anche le mie parole potevano contare qualcosa. Da quel momento non ho più avuto paura.
Così è altrettanto innegabile che l’ottimismo laico temprato nella lotta contro il male assoluto uscito dal grembo dell’epoca tecnologicamente più progredita, e posto a confronto serrato con la contemporanea parola poetica e filosofica sul “male di vivere”, sia di ben altra pasta da quelli metafisici irrisi o problematizzati da Voltaire, Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche. E questa mi appare questione tanto vasta e appassionante, su cui ovviamente non è qui il momento di soffermarsi. Quello che credo però opportuno riaffermare è che, se il monito delle generazioni che quell’esperienza hanno vissuto in prima persona è “non dimenticare”, noi non vorremo dimenticare nemmeno le testimonianze di quell’ottimismo – espresso appunto dalla capacità di prefigurazione di quel modo di stare al mondo che è l’obiettivo finale, un rapporto con gli altri e con le cose – e l’incoraggiamento che ce ne può provenire.
Negli anni del Politecnico, uno dei momenti più alti e intensi della collaborazione di Steiner con Vittorini, quest’ultimo gli si rivolgeva così, in una lettera inviatagli da Milano a Città del Messico (1°ottobre 1946): “Sono ansioso di riabbracciarti e di riavere le nostre chiacchiere di una sera la settimana, ansioso di rivedere il tuo faccione che ci aiutava tutti a persistere nell’ottimismo”. Chiunque abbia qualche esperienza di insegnamento sa quanto bisogno di simile aiuto avrebbe la scuola, ambiente di lavoro non immune da nocività, la cui più diffusa e caratteristica sindrome è quella depressiva da frustrazioni multiple nell’altalena di slanci vitali troppo spesso velleitari e incombente sentimento di inettitudine a vedere il reale.
Perciò, siccome anche di questo contagioso ottimismo del fare (quanto più sapiente, tanto più umile e generoso) dice benissimo Calvino, gli lascio la parola finale, riportando l’andamento circolare del mio discorso vicino a quel piacere dell’invenzione formale di cui spero aver suggerito alcune risonanze: e, finalmente, perché proprio lì, posto da subito sotto i nostri occhi, come in ogni inchiesta che si rispetti, stava “celato” il segreto, quanto prezioso per noi si è appena detto:
“Il segreto di Albe era nella contentezza che metteva nel suo lavoro, divertendosi come se giocasse. Nella contentezza che cercava continuamente di trasmettere negli altri attraverso tutto ciò che faceva e diceva e con la sola sua presenza. Un divertimento che non implicava affatto un atteggiamento di distacco, anzi egli credeva nel suo lavoro con una serietà e una passione assolute, in tutta la sua visione del mondo ; la sua morale attiva, la sua passione pedagogica, il suo entusiasmo li esprimeva nel suo lavoro”.
Gaetano Grasso (insegnante dell’ITSOS “Albe Steiner”)